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di Stefano Vaccara
NEW YORK (STATI UNITI) (ITALPRESS) – Le elezioni per la Casa Bianca del 2024 assomigliano sempre più, per atmosfere e analogie storiche, a quelle “spartiacque” del 1968. Allora trionfò il repubblicano Richard Nixon, un esperto politico veterano della Casa Bianca, per due anni vice di Eisenhower che aveva perso nel 1960 per un pugno di voti le elezioni contro John Kennedy. Nixon si prese la rivincita nel nel ’68, sconfiggendo il democratico Hubert Humphrey, vice del presidente Lyndon Johnson. Quest’ultimo, che all’inizio delle corsa non aveva dato segnali di voler rinunciare al potere, al primo test delle primarie del New Hampshire, superò solo di misura il “pacifista” e sconosciuto senatore del Minnesota Eugene McCarthy. Così pochi giorni dopo, in una scioccante diretta tv, Johnson annunciò agli americani di rinunciare a quello che sarebbe potuto essere un terzo mandato (LBJ era stato confermato presidente nel ’64 dopo essere subentrato come vice di Kennedy, assassinato a Dallas nel 1963). Quelle elezioni del 1968 ribaltarono il metodo in cui fino ad allora agli americani erano stati imposti dai maggiori partiti i loro candidati per contendersi la presidenza. L’attuale sistema elettorale presidenziale delle primarie strutturato come è adesso, infatti iniziò a prendere forma proprio nel 1968. Prima, erano gli apparati dei partiti che sceglievano il “nominato” alla presidenza alle convenzioni politiche nazionali. Anche se avvenivano delle elezioni primarie prima, questi apparati spesso ne ignoravano le sentenze escogitando con le loro manovre e alleanze come scegliersi il candidato preferito durante le Convention. Dopo il 1968, cambiò tutto: sia i democratici che i repubblicani, non poterono più ribaltare i risultati delle elezioni primarie senza tener conto degli equilibri dei delegati arrivati dalle primarie.
Nel 1968 gli Stati Uniti erano un paese profondamente spaccato, con manifestazioni pacifiste ma altre anche violente, sulla lotta per i diritti civili e contro la guerra in Vietnam. Venivano assassinati i leader di quei movimenti, come Martin Luther King, Malcom X fino al senatore Robert F. Kennedy, ex ministro della Giustizia nell’amministrazione del fratello John. Dopo la rinuncia del suo “nemico” Johnson, RFK aveva rotto ogni indugio ed era entrato nella corsa per la Casa Bianca per contendere a McCarthy e Humphrey la nomination democratica. Kennedy, una volta appartenente all’ala moderata del partito democratico, da senatore dello Stato di New York si era trasformato in un leader per i diritti civili e aveva dichiarato guerra alla estrema povertà, oltre a promettere una pace giusta per il Vietnam. Nella stessa notte della sua vittoria alle primarie della California, il 5 giugno 1968 Kennedy fu ferito mortalmente da colpi sparati a distanza ravvicinata nei corridoi di un albergo di Los Angeles e di cui fu ritenuto colpevole solo un giovane rifugiato palestinese, Sihran Sihran (ancora oggi in carcere), nonostante i colpi captati dalle registrazioni e che colpirono oltre al senatore altri suoi collaboratori, fossero superiori a quelli che la pistola impugnata da Shiran avesse potuto sparare.
Come sta avvenendo nel 2024 con Biden, allora il presidente in carica Johnson pur avendo ottenuto degli importanti risultati politici (la “Great society” e il “Civil Rights Act”) restava impopolare per via della recrudescenza della guerra in VietNam che per la prima volta mostrava immagini di massacri di civili negli schermi delle tv americane. Robert F. Kennedy, che entrò in quella corsa presidenziale del ’68 solo dopo la rinuncia di Johnson, è il padre dell’attuale candidato alla presidenza Robert F. Kennedy Jr. Anche RFK jr. aveva tentato nel 2023 di candidarsi nelle file del Partito democratico sfidando apertamente il presidente Biden, ma poi ha rinunciato optando per la candidatura da indipendente, lasciando così a quest’ultimo di conquistare indisturbato la nomination del partito. Ma se l’81enne Biden, come Johnson, avesse rinunciato a ricandidarsi? Probabile che RFK jr sarebbe rimasto in corsa nelle primarie del partito di suo padre e suo zio. Intanto alle primarie democratiche del ’24 il voto di protesta degli “uncommitted” (coloro che ancora non vogliono scegliere) è rimasto alto, in alcuni stati con punte del 15%, un segnale di grave pericolo per la tenuta della “coalizione’ che dovrebbe rieleggere Biden. Anche in questo, come avvenne per Johnson, la maggiore causa della protesta, soprattutto dei giovani americani, è un conflitto all’estero: quello tra Israele e i palestinesi.
Certo non sono gli Stati Uniti ad aver bombardato le città di Gaza piene di civili uccidendone oltre 30mila (dei soli corpi ritrovati), o a impedire ai camion con aiuti anche americani di raggiungere la popolazione – per metà composta da minorenni – affamata, ma Biden viene ritenuto “complice” del governo Netanyahu in questa guerra ormai bollata, non solo da chi protesta nelle strade ma anche nei forum internazionali, come un “genocidio”. Perché i giovani americani accusano la Casa Bianca di esserne complice? Perché continua e fornire armi a Israele e per aver impedito per mesi al Consiglio di Sicurezza dell’ONU di approvare una risoluzione sul cessate il fuoco e, quando una risoluzione è stata finalmente approvata questa settimana (con 14 voti a favore e la sola astensione degli USA), di affondarla dichiarando pubblicamente di non considerarla “binding” (vincolante), dando un segnale di via libera a Israele per continuare a bombardare. Intanto, questa settimana, dopo aver scelto come sua vice la giovane avvocato e imprenditrice miliardaria della Silicon Valley, Nicole Shanahan (che fino a ieri dava i suoi soldi al partito democratico), RFK jr sembra avere tutte le carte in regola per essere un “terzo incomodo” competitivo tra gli sfidanti Joe Biden e Donald Trump. Come nel 1968 lo fu anche l’ex governatore dell’Alabama George Wallace tra Humphrey e Nixon.
Però Wallace, nei toni dei suoi comizi e nelle idee razziste che proponeva al blocco di elettori che attraeva (uomini bianchi con scarso livello di istruzione) assomiglia molto più al candidato “repubblicano” Donald Trump che a RFK jr. Infatti l’ex presidente, il primo della storia USA ad essere sotto processo penale, seppur ha vissuto già nelle stanze dei bottoni per quattro anni, continua a presentarsi come il candidato “anti-establishment”, unico in grado di drenare la palude (“drain the swamp”): nel linguaggio come nelle idee, sembra l’erede di Wallace. Tornando alla situazione internazionale, il 2024 assomiglia al 1968 anche per un altro conflitto, ancora più pericoloso per le sorti del mondo: quello tra la NATO e la Russia. Infatti poco prima delle convention repubblicane e democratiche del 1968, i carri armati sovietici entrano a Praga. Cosa avverrebbe alle convention dell’estate 2024 di Milwaukee e di Chicago se i carri armati russi entrassero a Kiev? Proprio giovedì, a New York, la campagna elettorale per la riconferma di Joe Biden ha cercato di mostrare la forza della sua coalizione e l’unità del suo partito, presentando il candidato con affianco gli ex presidente Barack Obama e Bill Clinton, organizzando una serata di raccolta fondi che ha superato la cifra record di 25 milioni di dollari. Con alcune delle singole donazioni anche di 500 mila dollari, è apparso sì un successo “finanziario”, ma che rispecchia una coalizione ben diversa da quella rappresentata dalle “micro donazioni” via internet che elesse nel 2008 alla Casa Bianca il primo candidato afro americano della storia.
Ecco quindi che alla serata nel centro di Manhattan che “dona” 25 milioni di dollari alla campagna per Biden, sono spuntati sia fuori che dentro, coloro che protestano con le bandiere della Palestina contro il presidente per la guerra a Gaza. Coalizione democratica forte e unita perché raccoglie 25 milioni in una notte? Altra coincidenza: nel 1968, la Convention democratica si tenne a Chicago, nella stessa metropoli dove il partito di Biden si ripresenta ad agosto per siglare la sua nomination. Nel 1968 quella convention rimase famosa nella storia americana non per aver dato la nomination – perdente – al vice di Johnson, Humphrey, ma per i sanguinosi scontri tra la polizia e i movimenti politici anti guerra del Vietnam, che oltre a mettere a ferro e fuoco Chicago, certificarono la frantumazione della coalizione democratica spianando la strada della vittoria a Richard Nixon. Anche Trump ha i suoi guai, ci sono ben 5 processi legali, soprattutto quelli con accuse penali gravissime per aver aiutato un’“insurrezione” cercando di negare ai cittadini americani il diritto costituzionale al voto, che potrebbero compromettere la sua nomination alla convention di luglio a Milwaukee o comunque la vittoria finale a novembre. Ma per la convention che attende Biden a Chicago, soprattutto se le crisi internazionali resteranno di tale gravità o addirittura peggiorassero, potrebbe apparire lo spettro di quella di 56 anni fa.
Nel 1968, i candidati a sfidarsi alle elezioni di novembre per la presidenza finirono per essere tre: Nixon, Humphrey e Wallace. Il candidato dei repubblicani prevalse, ma anche gli altri due vinsero stati e milioni di voti che mostrarono quanto spaccato fosse il paese. Tra otto mesi potrebbero essere ancora tre i candidati a competere: Kennedy, Biden e Trump. Chi resta favorito oggi, potrebbe non più esserlo il 5 novembre.

– Foto Library of Congress –

(ITALPRESS).

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